Giorgio Gaber : Libertà obbligatoria
di Fabio Landi
Di questo autentico genio della canzone e del teatro ho visto tutti gli spettacoli e comperato tutti i dischi, a partire dal 1976. Poi, essendomi chiesto come avessi fatto a non ascoltare tutto quello che l’insigne coppia Gaber-Luporini aveva fatto prima, sono corso ai ripari ed ho colmato la lacuna. Però "Libertà obbligatoria" ha conservato un posto speciale nel mio cuore. Dev’essere stato per la mia età, vent’anni, ed ancor più per essere stato quello il momento della ribellione e dell’utopia collettive. Nel mio gruppo, eravamo tutti estremamente coinvolti e vivevamo intensamente quel periodo, qualche volta – a mio giudizio - anche peccando di massimalismo, schematismo, settarismo e qualche altro "ismo" che, pur non invalidando la bellezza e le ragioni di quel sogno, tuttavia lo rendevano un poco allergico all’autocritica. Pertanto: chi era quel signore, Gaber, che pensava solo con la sua testa e distribuiva schiaffoni a tutti quelli che meritassero le sue sferzanti critiche? Un "compagno di viaggio" che non faceva sconti a nessuno e precorreva i tempi, mettendo tutti in guardia contro i rischi dell’omologazione e non si spaventava di bollare col marchio infamante della "moda", tanti comportamenti apparentemente alternativi. Gaber era talmente affezionato a quell’utopia di cambiamento, da non temere di chiamarla "merda" quando la vedeva maltrattata, declinata in atteggiamenti inautentici che restavano rigorosamente sulla superficie, anzichè arrivare al nucleo profondo delle coscienze. "Un’idea, un concetto, un’idea/ finchè resta un’idea è soltanto un’astrazione/ se potessi mangiare un’idea/ avrei fatto la mia rivoluzione". Provate a riascoltare : "I reduci", "L’uomo muore" e la celeberrima "Si può", una canzone che Gaber amava al punto tale da cantarla fino agli ultimi spettacoli, rivisitata ed aggiornata nel testo, in modo da includere l’evoluzione sociale e culturale di tutte le possibili fasulle libertà che la contemporaneità ci concede. Alcuni anni prima, con "Al bar Casablanca", Gaber aveva intuito tutta la fatuità di un certo "intellettualismo" di sinistra, che mandava avanti gli operai e – con il dovuto distacco - si limitava a commentare il mondo, tra una leccata al gelato, una sbirciata alle belle donne di passaggio, la Nikon, gli occhiali "e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali". Mi piacerebbe sapere se sia mai mancata, le domenica mattina, una replica della stessa scenetta in molti quartieri della città, con gli stessi personaggi ed i medesimi riti.
Gaber è stato un artista severo ed intransigente fino alla fine e non risparmiava mai i suoi strali contro i compromessi e l’ipocrisia: chissà che cosa avrebbe detto di questo nostro sciagurato presente, a mio modesto avviso molto peggiore di quello ricompreso tra gli anni ’70 e gli anni ’90! In mezzo alle gemme – monologhi e canzoni - di questo splendido, doppio ellepì, vorrei dedicare due parole in più a: "Il comportamento" e "La solitudine". La prima narra di un uomo profondamente ipocrita, che costruisce le sue false identità sulle macerie di un Io fragile . Questa specie di Zelig vive solo se ed in quanto inventa e recita, nei diversi contesti, ruoli tanto diversificati quanto falsi, in grado solo di celare la nullità del suo nucleo identitario. "La solitudine" invece, in un’ epoca di narrazione e comportamenti quasi solo collettivi, rifondava il principio della sua necettià: "Non è mica una follia/ è indispensabile per star bene in compagnia". Anche il brano: "Le elezioni" era rigorosamente riproposto da Gaber tra gli innumerevoli bis finali dei suoi spettacoli. La sua perdurante attualità, certe volte, mi fa ipotizzare che Gaber e Luporini avessero una specie di palla di vetro, nella quale riuscivano ad intravedere squarci di futuro. "Le elezioni" di Gaber sono un rito liturgico e vuoto, completamente deprivato di senso e ridotto a puro feticismo: la scheda elettorale, la matita perfettamente temperata . Le persone in attesa davanti ai seggi paiono anche più buone, nel replicarsi infinito di domeniche mattine immancabilmente inondate di sole. "Le elezioni" mi fa venire in mente un grande film di Ingmar Bergman , "L’uovo del serpente", ambientato nella Germania pre bellica. Nel film, l’uovo del serpente è una metafora del nazismo: nell’ultima sua fase evolutiva, diventa trasparente e mostra, ancora prima che il serpente ne rompa il guscio, la sua natura letale. Era così che Bergman guardava a quel periodo storico: una fragile pellicola che faceva già indovinare i tratti malvagi della barbarie che, di lì a poco, avrebbe infettato il mondo con l’Olocausto e la guerra. Vi pare un paragone esagerato? Penso che Gaber non sarebbe stato d’accordo: anche lui – con "Le elezioni" – aveva visto prima degli altri quello che sarebbero diventate e la sbiadita anima democratica che hanno oggi.