Un Amore da Film - Medusa

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Un Amore da Film

Cinema


Un Amore da  Film:
Percy Bisshe Shelly e Marri Wollstone Craft
di Andrea de Manincor

Rimane vivido il ricordo di un bel film, uscito nelle nostre sale circa tre anni fa, sulla biografia di Mary Wollstonecraft Godwin, poi Mary Shelley, che viene ritratta esattamente in quel periodo in cui, nell’arco di pochi anni, fiorisce e prende vita l’amore dell’autrice di “Frankenstein” per il bel poeta inglese, forse il più puro fra gli esponenti del romanticismo d’Oltremanica – sui banchi delle nostre scuole si studiano i versi meravigliosi di “Ode al vento dell’Ovest”, con il suo caos poetico, le immagini intraprendenti, il gusto sonoro, vivo, di una confusione di vita che è la stessa confusione del poeta, che agogna, aspira ad essere trascinato in un infinito vagare senza posa come il vento dell’Ovest di cui canta.
Tuttavia, per quanto in una trattazione da fiction, con le cadute e i riscatti tipici di un “biopic”, dal film – con una splendida Elle Fanning come protagonista, e Haifaa al-Mansour alla regia – si evince abbastanza chiaramente la verità biografica di un uomo come Shelley (interpretato da Douglas Booth): vita avventurosa, girovaga, con al seguito un numero imprecisato di possibili rapporti, per una teoria di libero matrimonio a cui sia Percy che la compagna aderirono – teoria di cui fu codificatore il padre di Mary, quel William Godwin, filosofo libertario, a cui poi, quando capitò il caso di avere una figlia coerente col pensiero da lui stesso promanato, finì per opporvisi.
Riconosciamo così, in Shelley, i tratti di un uomo delicato, risoluto su certi grandi ideali, ma allo stesso tempo con qualche egoistica vigliaccheria, dovuta alla tendenza alla fuga, alla sottrazione alla regola, principio che condivide ovviamente con altri irruenti protagonisti del periodo romantico, tutti giovanissimi, parzialmente votati all’autodistruzione, o alla ricerca di un eccesso. Una repubblica dei Romantici che avrà nell’occasione del rifugio svizzero una sentina di pensiero diversivo, attraverso una “challenge” di racconti gotici, a cui prenderanno parte anche lo sfortunato John William Polidori e l’eccessivo, incontenibile Lord Byron.
Ma questa ricerca per esempio non interesserà Mary, che preferirà inventare l’esperienza di un’umanità selvaggia e schiavizzata, in Frankenstein.
Ma anche Shelley, il talora pavido Shelley, lo spendaccione il cui cadavere verrà restituito dal mare salato (per citare Pratt) un giorno di luglio del 1822, al largo delle coste italiane, viareggine per la precisione, scriverà di un mito fondativo, di quello nel quale sicuramente si sarà riconosciuto, Prometeo (Prometheus unbound). Prometeo è il portatore di un riscatto dell’uomo di fronte alla brutalizzazione di un Olimpo di dei egoisti, autoreferenti, e nel suo imprendibile vagare si sarà sentito così, prometeico il nostro Shelley. Tuttavia la pellicola ben mette in evidenza egualmente uno scrittore altrettanto autoreferente, eterno adolescente come capitò a molti poeti del Romanticismo, movimento di un’espressione del sé egotista, individualista all’estremo. Il secolo delle rivolte cittadine e libertarie, delle guerre d’Indipendenza in quell’Europa del Continente che Shelley, con al seguito Mary, i figli che periranno, e Claire, la sorellastra di Mary, attraverserà in un’esausta ricerca di luoghi ispiratori, o luoghi di pace personale, quel secolo sembra andare stretto allo Shelley storico, naufrago e morente al largo di Viareggio. Ma nel film, di fronte al possibile scempio di un “non riconoscimento” dell’autenticità di Frankenstein a firma di Mary Shelley e di una falsa attribuzione del capolavoro gotico a lui, autore e maschio, Shelley declinerà questa stessa attribuzione, facendone gloria invece alla moglie e compagna, in un atto di finale riconciliazione, che simbolicamente sembra dar pace ad uno scrittore, in bilico fra esposizione del successo personale e “buen ritiro” fra le mura private di un focolare domestico, amoroso e confortevole.


Andrea de Manincor
Diploma di Liceo Classico a.s. 1987/88. Ha studiato recitazione sotto la guida di Natale Brogi, presso il CEA (Centro Educazione Artistica) di Verona dal 1980 al 1988; mimo con Roberto Castilla nel 1987. Ha approfondito la tecnica mimesica di Orazio Costa, sotto la direzione di Andrea Camilleri e di Giuseppe Bevilacqua, presso la Scuola Europea d’Arte dell’Attore di San Minato, nel 1995, e ha avuto – come ulteriori maestri – Fiorenza Brogi e Bob Marchese. Ha approfondito la tecnica narrativa con Laura Curino, del Teatro Settimo di Torino, e dal 1997 ha lavorato sulla Commedia dell’Arte con Claudio Di Palma (Teatro Segreto di Salerno). Nel corso del ‘99 ha approfondito il metodo Decroux con il maestro Michele Monetta e ha lavorato sulla verità del testo shakespeariano con Tonino Accolla a Benevento. Ha approfondito l’improvvisazione teatrale con Bruno Cortini e Fiamma Negri, della LIIT (Lega Italiana di Improvvisazione Teatrale). Ha debuttato giovanissimo, nel 1980, come mimo nel “Bastiano e Bastiana” di Mozart, al Teatro Filarmonico di Verona, con la regia di Renzo Giacchieri.

 
 
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