CLAUDE MONET: IL PITTORE DELLA LUCE.
di Raffaella Saponaro Monti –Bragadin
«L’impressionismo non è soltanto una rivoluzione nel campo del pensiero, ma è anche una rivoluzione fisiologica nell’occhio umano. Esso è una teoria nuova che dipende da un motivo diverso di percepire la sensazione della luce e di esprimere le impressioni. Né gli impressionisti fabbricarono prima le loro teorie, e dopo vi adattarono i quadri, ma al contrario, come sempre accade nelle scoperte, furono i quadri nati dal fenomeno incosciente degli occhi degli uomini d’arte, che, studiati, produssero il ragionamento dei filosofi. » (Dalla conferenza di Diego Martelli, teorico dei macchiaioli, al Circolo Filologico di Livorno, 1879; passo riportato in Bartolena, p. 151). Per i motivi sopra citati e per rendere omaggio a una Personalità indimenticabile nella Storia dell’Arte, Palazzo Ducale, a Genova, ha dedicato una mostra a Claude Monet, in cui sono esposte una cinquantina di opere essenziali per approfondire l’Autore. I quadri sono stati allestiti nella Sala del Munizioniere, dove la mostra è stata aperta l’11 febbraio fino al 22 maggio 2022. L’esistenza dei grandi Artisti è molto spesso singolare perché contraddistinta da momenti di esaltazione per le proprie scoperte, alternati ad altri di depressione, accorgendosi quando la critica, oltre al pubblico che osserva, non riesca a percepire una linea pittorica innovativa di autentici Maestri, fondamentale anche per il futuro. Tutto questo insieme di stati d’animo sottolinea l’importanza di una vasta esposizione di ben cinquanta opere, che evidenziano il percorso e il genio di Oscar-Claude Monet, nato a Parigi nel 1840, durante il regno di Luigi Filippo, da Claude-Adolphe e Louise Justine Aubrée, brava musicista; prima di Claude, come preferirà farsi chiamare il pittore, era nato il fratello Léon Pascal. La famiglia unita si trasferì in seguito a Le Havre, dietro suggerimento del cognato, per occuparsi dell’impresa familiare che era impegnata in forniture navali, dicono alcuni, che aveva un’attività di prodotti coloniali, dicono altri. Al giovane Claude non piaceva molto lo studio sistematico; non era assiduo alle lezioni perché andare a scuola era un gran sacrificio. Sovente chi nutre una passione desidererebbe dedicarsi a ciò che piace, tanto più che il futuro pittore aveva mostrato una predisposizione al disegno durante un corso di Jacques François Ochard, il cui maestro era stato Jacques-Louis David. Monet evidenziò una particolare abilità nelle caricature. Non si può immaginare il futuro di Monet "caricaturista", famoso come creatore di eccezionali opere en plain air riguardanti i riflessi della luce, amante della natura, del mare, degli elementi che lo circondavano. Eppure, già da adolescente iniziò a produrre caricature che piacquero, con le quali si affermò; iniziò ad assegnare un prezzo ai suoi lavori di ragazzo: dai dieci ai venti franchi secondo il ceto sociale, poi solo venti franchi per tutti fino a esporre la sua produzione presso la bottega di un corniciaio. Venne così a conoscere Eugène Boudin, il quale gli parlò della propria esperienza nel dipingere all’aperto, osservando attentamente le mutevoli luci del giorno, le sfumature prodotte da queste sui paesaggi, ad esempio la nebbia avvolgente persone e ambienti secondo le situazioni. Claude affermò di aver trovato in Boudin il suo primo maestro, il quale lo indusse a notare le variazioni di tinte secondo il mutamento della luce nell’avvicendarsi delle stagioni, dal pallido chiarore dell’alba alle diverse sfumature del tramonto. L’occhio di Monet percepiva con forte sensibilità ogni contrasto di luce sul medesimo soggetto in modo più preciso di una macchina fotografica di oggi. A tutto questo aggiunse con l’esperienza e con lo studio "l’importanza dell’aria", vale a dire il coinvolgimento dell’atmosfera che avvolgeva con bagliori mutevoli ciò che avrebbe voluto ritrarre; ne è la prova "La passeggiata" (Camille Monet con il figlio Jean sulla collina) oppure lo studio en plain air: "Donna con il parasole rivolta a sinistra", immersa in un paesaggio campestre fra il giallo intenso e il verde dell’erba tenera mentre refoli di vento sembrano sfiorare l’insieme. Molto interessante "Barca a vela effetto sera" del 1885, in cui le pennellate creano variazioni a non finire dal cielo all’orizzonte che pare unirsi all’acqua del mare dai colori più impensati, mossa dallo sciabordio delle onde attorno alla scura barca a vela. Nel 1879 Monet attraversò un periodo d’intenso dolore; morì di tubercolosi l’adorata moglie Camille, che gli aveva dato due figli: Jean e Michel, quest’ultimo di recente, del quale abbiamo alcuni ritratti particolarmente amabili. Uno rappresenta il bambino, nato il 17 marzo 1878, a mezzo busto di tre quarti, le gote colorite, gli occhi pensierosi, con una camiciola rosa adorna da un colletto di pizzo, mentre il bel visetto è incorniciato da una bianca cuffietta di cotone. Il secondo lavoro del 1883 mostra "Michel in maglione blu", il volto regolare, con gli occhioni fissi su suo padre, forse scontroso e impaziente di fermarsi in posa. Le pennellate paiono veloci, conferendo al dipinto un senso d’incompiutezza. Come era sua consuetudine, Claude esplorava luoghi in cerca di novità, d’ispirazione, di angoli nel mondo che lo sollecitassero a trasferire i suoi stati d’animo sulle tele mediante il pennello intinto sulla sua memorabile tavolozza. Si muoveva parecchio, però; arrivò anche in Italia fino a Genova, viaggiando con l’amico Renoir. In Liguria fu attratto da Bordighera, che gli avrebbe dedicato un percorso tutt’oggi esistente. Correva l’anno 1884. Non gli sfuggirono Dolceacqua e il suo castello, Ventimiglia nell’alta parte antica e in quella affacciata sul mare, ricca anche di parchi. All’inizio del suo soggiorno lungo la costa, non riusciva a percepire l’intensa luminosità del Mediterraneo rispetto a quella, più diffusamente soffice, della Normandia. Tempo dopo avrebbe ricordato Bordighera come un luogo affascinante, avendo ormai compreso lo spirito del posto.Nel 1883 era giunto in un piccolo comune della Normandia, tranquillo, aggraziato, dove notò un casolare vetusto da rimettere a posto; non solo fu questa antica costruzione ad affascinarlo, ma un giardino che ne arricchiva l’attrattiva perché dotato di alberi fioriti dai colori più vari e delicati. Il luogo era Giverny, alla confluenza del fiume Epte con la Senna; godeva di una luce soffusa, magnifica: erano i riflessi che aveva cercato a lungo. Si trovava abbastanza vicino a Parigi, che si sarebbe potuta raggiungere in un’oretta circa di auto o in ferrovia. Eccolo pervenuto nel suo nido ideale. L’abitazione era ampia e comoda, dotata di un giardino grande, molto grande. Avrebbe ristrutturato la casa per sé, per i suoi figli, per la numerosa prole della sua attuale compagna, Alice Hoschedé. Avrebbe trascorso lì tutto il resto della vita; in quell’ambiente ricco di rapide sfumature cromatiche di luce, avrebbe trasformato il giardino in un fuoco d’artificio di colori brillanti, avrebbe inserito fra i salici e altri alberi, in un lago apposito, le sue adorate ninfee, che avrebbero rappresentato la propria gioia presente e la sua gloria futura. Non gli piaceva dipingere senza un tripudio di fiori, dato che fra gli interessi che coltivava c’era la botanica, la coltivazione delle piante. L’abitazione, ristrutturata tenendo presente le sfumature del giardino, divenne un’alternanza di colori: gialla la sala da pranzo, blu le mattonelle di Rouen della cucina, scelte con meticolosa cura, lo studio personale dipinto di azzurro. La facciata della casa era rosa, in armonia con i petali delle piante che aveva in giardino, come le ninfee, dalle chiare tinte all’esterno che si facevano più vivaci al loro interno. Armoniosa e curata secondo i canoni suoi personali, il trascurato casolare divenne una dimora da sogno in cui si fermò dal 1883 al 1926, anno della morte. Con il tempo e secondo i mezzi a disposizione, acquistò non senza fatica, un appezzamento di terreno con l’intenzione di dar vita a un parco acquatico per offrire spazio alle preziose ninfee, da lui predilette, accanto ad altre piante fiorite. Sulle sponde dello stagno crescevano iris di ogni specie: la "favorita" era l’iris Germanica, dai dolci petali dal blu al viola. Di solito in Italia prendeva e assume ancora il nome di "giaggiolo". Interessante l’olio su tela dal titolo "Iris" degli anni 1924-1925 in cui lo slancio degli steli e delle foglie creano un ornamento di singolare eleganza. Vi fece costruire un ponticello, come spesso se ne vedevano in Giappone; era appassionato di arte orientale, della quale possedeva parecchie stampe. Legandosi per sempre a quel "luogo di delizie", la creatività raggiunse l’acme. I dipinti delle ninfee si svilupparono nei modi più diversi secondo i riflessi del sole e l’aria che, dolcemente, le sfiorava. L’aria fungeva da "filtro naturale" prezioso per i suoi dipinti, come lo è ancora nei Paesi Bassi, in Olanda, dove i raggi del sole penetrano le nuvole con discrezione, favorendo la pittura e, oggi, anche la fotografia. Alcune parole pronunciate da Monet sono rievocate per indicarne l’originalità della pittura: «Non voglio dipingere altro che la bellezza dell’aria». Un’altra sua massima del 1895 fu: «Il soggetto per me è insignificante; mi interessa solo rendere quel che c’è tra lui e me». L’effetto delle nuvole sull’acqua del laghetto, lo sfiorare dolcemente lo stagno delle fronde dei salici, come fossero una sola cosa, in un dipinto "Ninfee" e in altri che datano dal 1916 al 1919, consente di presagire uno slancio che sta andando oltre l’impressionismo, ma che si avventura verso una composizione che rispecchia nuovi canoni, in un certo senso quasi astratta: una rinnovata e audace interpretazione compositiva che nasce dall’animo del pittore il quale, inconsciamente, avverte il cambiamento dell’arte con forte sensibilità. Dal 1912 Monet fu tormentato da una cecità invalidante a causa di una cataratta bilaterale che lo faceva percepire in modo diverso luminosità e colori. A questo si aggiunse il dolore per la scomparsa della moglie Alice e del giovane figlio Jean, nel 1914. Le ispirazioni tratte dal suo giardino perdurarono fino alla fine dei suoi giorni. "I viali delle rose", "I salici piangenti", "I ponti giapponesi" appartengono a un periodo di sofferenza: le linee dei dipinti erano meno nitide e la cecità incombente gli permetteva di trovare l’espediente per estrarre il colore in modo diretto dal tubetto per sistemarlo sulla tavolozza. Tutto assume una diversa dimensione, più "amplificata" che sembra voler indicare la via ai futuri espressionisti americani come, ad esempio, Jackson Pollock. La cecità che lo tormentò negli ultimi anni, si dice che gli abbia comunicato differenti percezioni, modificando e accentuando, in buona parte, la via artistica che aveva intrapreso. Morì nel 1926 a Giverny, dopo aver lavorato indefessamente con passione fino alla fine dei suoi giorni, nonostante le invalidità fisiche.